Articolo pubblicato sul Il Messaggero di lunedì 27 aprile 2020

Tra le conseguenze più dirompenti della pandemia, c’è l’affermazione globale del distanziamento come principio di organizzazione sociale.

Sul punto ha ragione Giorgio Agamben quando rileva che raramente nella storia dell’umanità si è assistito all’irruzione, così rapida e dirompente, di una regola di condotta capace di ordinare le azioni, individuali e collettive, su così vasta scala.

Non c’erano vaccini, la scienza non ha trovato altre risposte e così l’unica, amara, medicina possibile è stata sociale: il distanziamento che, nell’emergenza, ci ha portato ad accettare per quasi due mesi un lockdown delle nostre libertà che non conosce precedenti, neanche in  tempi di guerra.

Se l’istinto individuale di sopravvivenza è stato il motore originario della supina accettazione di limiti tanto stringenti, i nuovi principi del distanziamento sociale si sono ben presto fatti obblighi giuridici e, ormai, sono entrati a far parte della morale comune, come si vede nelle file dei supermercati.

Alcuni paesi si sono mossi prima, altri hanno tardato, ma alla fine tutti hanno dovuto prendere atto della necessità di praticare il distanziamento sociale. Se gli svedesi hanno indugiato, perché in un primo momento hanno preferito scommettere sulla responsabilità individuale, e gli anglosassoni hanno atteso l’ultimo momento, perché per tradizione sono riluttanti a qualsiasi limitazione della loro libertà, la Cina non ha avuto remore a seguire la strada dell’obbligatorietà e della coercizione. Le altre democrazie europee hanno infine seguito, cercando di evitarne gli errori, la via intrapresa dell’Italia. Dove, per realizzare il distanziamento nell’emergenza, si è fatto ricorso a strumenti anche poco ortodossi come il D.p.c.m. che, come nello stato di eccezione immaginato da Carl Schmitt, è assurto al rango di fonte primaria dell’ordinamento capace di sospendere, seppur temporaneamente, molte fondamentali libertà costituzionali.

Ora che per fortuna il contagio rallenta, si deve aprire la Fase Due per evitare che questa drastica quarantena si trasformarmi in rovina economica.

Ma perché ciò si realizzi il distanziamento da regola dell’emergenza che giustifica il lockdown delle libertà democratiche deve diventare principio ordinatore della nuova normalità e dunque essere contemperato con quelle libertà.

Questa evoluzione è già in fase avanzata sui luoghi di lavoro dove l’emergenza economica rende ogni giorno più impellente la ricerca di  nuovi e più avanzati punti di equilibrio tra libertà d’impresa e tutela della salute dei lavoratori per far ripartire la produzione.

Non a caso il primo sistema di regole che ha consentito di assicurare la continuità produttiva nei servizi pubblici essenziali durante la fase acuta del contagio è stato, in una importante reverve concertativa, quello dettato dal Protocollo del 14 marzo 2020 tra Governo e parti sociali, recentemente aggiornato il 24 aprile, così come il principale documento tecnico sulla Fase 2 sono le Linee guida elaborate dall’Inail.

Un documento interessante perché assume il distanziamento a  principio di organizzazione di tutti i luoghi della produzione e può darci un’idea del tipo di sacrifici che dovremo affrontare nella nuova normalità. Ma anche perché, attraverso i lavori della Commissione Colao, questi principi confluiranno nel nuovo decreto sulla Fase 2 che tutti attendono in vista del 4 maggio.

Come si capisce da questi testi, si tratterà di una ripresa difficile che richiederà le migliori energie e molti capitali perché le imprese per ripartire, oltre a fronteggiare i debiti e riconquistare le quote di mercato perse, dovranno  ripensare i luoghi del lavoro, rimodulare gli spazi e le postazioni, sanificare gli ambienti, introdurre barriere separatorie, riorganizzare turni ed orari in modo da minimizzare gli assembramenti e favorire la rarefazione delle presenze nei locali aziendali; sottoporre i dipendenti al controllo della temperatura corporea prima dell’accesso al luogo di lavoro e via dicendo. Speriamo che possano presto contare sui 37 miliardi resi disponibili dal Mes e sugli altri del Recovery Fund anche per evitare che il lavoro dell’uomo ai tempi del coronavirus diventi talmente costoso da accelerare quei processi di automazione delle linee produttive che potrebbero alimentare ulteriormente la disoccupazione e con essa le tensioni sociali latenti.

Anche perché nella fase due i lavoratori saranno i primi a dover sopportare le conseguenze fisiche, sociali e psicologiche del distanziamento sui luoghi della produzione.

Inutile farsi illusioni, almeno agli inizi, il lavoro sarà più difficile. Faremo meno cose in più tempo. La giornata lavorativa sarà scandita da ritmi più lenti come dalla necessità di prestare maggiore attenzione a cosa si tocca e a chi ci viene incontro. Torneremo al lavoro ma ci sentiremo ancora soli dietro la mascherina. Sarà più difficile svolgere attività sindacale, ma anche incontrare i colleghi, dovremo rinunciare a luoghi e momenti per la socializzazione, probabilmente anche alla pausa caffè. E poi dovremo abituarci a file più lunghe, per prendere i mezzi pubblici, nel traffico, come per fare la spesa, e ai tanti altri piccoli e grandi sacrifici necessari per evitare di tornare in quarantena, come quello di non vedere i nostri amici ultra sessantenni, a cominciare dai nonni.

Poi, come è nella nostra natura, ci adatteremo. Concentrandoci su ciò che è essenziale, faremo tesoro della lezione e, con il virus, muteremo. Ci apriremo a valori diversi, magari più sostenibili, e, quando avremo preso il ritmo e saremo pronti a cogliere nuove opportunità, probabilmente qualcuno troverà un vaccino. Chissà se a quel punto saremo gli stessi di prima e a che distanza ci re-incontreremo.